La Stampa, 30 maggio 2017
C’è davvero un sentimento anti industriale in Italia? La conferma arriva da più parti oltre che dalle stesse imprese che denunciano il trattamento non amichevole riservato loro dai media. La sensazione c’ è, e la conferma uno studio dell’Osservatorio di Pavia. Che i media tradizionali, soprattutto le tv, accusino le imprese dei mali del mondo, dalla deforestazione all’ obesità, è paradossale.
I media infatti, che sono anch’essi un’industria, vivono degli introiti pubblicitari forniti da quelle stesse aziende che poi accusano senza possibilità di replica. Perché? Dovrebbe interessarci capire da dove viene questa propensione, per poi invertirne la rotta. Nasce sostanzialmente da tre filoni.
1) Gli italiani soffrono del successo altrui. Quello che gli altri hanno e ottengono è fonte di sospetto. Sono gli stessi italiani a fomentare quel sospetto con atteggiamenti – si veda la cronaca – che dimostrano una propensione a infrangere le regole per arrivare prima al risultato. Questo atteggiamento ha origine in una sorta di sudditanza collettiva, prima ai vari regnanti, e ancor oggi allo Stato dirigista. L’idea di Stato Liberale da noi non si è mai davvero radicata, a differenza del mondo anglosassone. La conseguenza è che il cittadino non è responsabile delle regole della convivenza, e quindi protagonista delle libertà soggettive e oggettive. Egli è vittima delle regole che tende quindi a infrangere. Da qui la necessità di riunirsi in corporazioni per sopravvivere allo Stato con la conseguente ostilità verso l’individuo che intraprende, e quindi le imprese.
2) Questi comportamenti coinvolgono anche chi dovrebbe produrre informazione, cioè il sistema dei media, giornalisti compresi. Come ho già avuto modo di scrivere recentemente, molti giornalisti contemporanei sono più inclini a commentare che a raccontare dopo aver confutato. Come il resto dei concittadini sono ostili al metodo scientifico.
L’ansia da audience poi, li guida erroneamente ad incitare l’inclinazione dei cittadini di cui sopra. Dovrebbero invece educarli al conflitto plurale tra idee, seguendo il metodo sperimentale. Soprattutto i media che vivono di finanziamenti pubblici.
3) Paradossalmente anche le imprese sono responsabili di questa situazione di cui si lamentano – fanno harakiri.
D’altronde sono sempre uomini a governarle. Molte di queste infatti, convinte di preservare le proprie finalità commerciali, cedono la propria visione e le strategie alle urla di quei consumatori che ne contestano l’operato. Il modo con cui molte imprese interpretano la responsabilità sociale ne è una dimostrazione. Oppure rincorrono a poco dignitosi accordi di bottega con gruppi di consumatori o addirittura con qualche media, che dovrebbero aiutarli a migliorarne la reputazione. Gli esiti sono pessimi.
Se queste sono le tendenze, quali possono essere i rimedi?
Quanto alla terza tendenza, per fortuna ci sono ancora imprese coerenti e con la schiena dritta, che quotidianamente sfornano prodotti e processi innovativi e che difendono il proprio operato nel libero mercato anche internazionale. Per affrontare gli altri due filoni, è urgente un aperto impegno culturale in campo civile. Con chiarezza e fermezza occorre dire che la metodologia individuale del cittadino – vale a dire la sua libertà e non la sua furbizia egoistica – è il motore della convivenza attraverso il conoscere, il darsi regole sul come interagire e il prendere iniziative d’ogni genere. Dopodiché il conflitto secondo le regole tra le innumerevoli proposte dei cittadini, porterà ad operare delle scelte in base ai rispettivi risultati. Senza questa disponibilità ad ingegnarsi e a confrontarsi nei fatti, è impensabile fronteggiare i ritmi della globalizzazione. Altrimenti, condanneremmo il Paese a vedere erose le proprie condizioni socioeconomiche e dei diritti civili. Naturalmente, un simile impegno culturale in campo civile sarà arduo se l’informazione non sarà disponibile a raccontare idee e fatti per come si presentano smettendo di fare la portavoce del conformismo.