La Stampa, 10 giugno 2017
Anche quest’anno la scuola ha deluso molte attese. Non nascondiamoci dietro la solita retorica. Fatichiamo a riconoscere le incredibili trasformazioni che tutti noi, ma soprattutto i nostri ragazzi, stiamo vivendo. Non siamo in grado di dar loro una risposta. E’ colpa di noi insegnanti, anche dei più lungimiranti. Abbiamo lasciato alla politica il compito di fornirci una visione e guidarci verso il cambiamento con riforme improbabili. Abbiamo fallito. Abbiamo anteposto noi stessi ai ragazzi e ci siamo affidati a burocrati inefficaci, il cui unico obiettivo è il mantenimento dello status quo. I ragazzi devono ritornare al centro della scuola perché insegnare è un lavoro meraviglioso. Il verbo latino insignare ha il significato di imprimere, incidere nella mente. Questa attività di incisione va oltre il semplice trasferimento di nozioni.
Il Mr. Ringold del romanzo di Philip Roth, Ho sposato un comunista , ci fornisce un’immagine memorabile dell’ insegnante: «La sua passione era spiegare, chiarire, scomporre ogni argomento (…) con spontaneità viscerale, una rivelazione per ragazzetti come noi, addomesticati e rispettabili (…)». «Nella società umana, pensare è la più grande trasgressione di tutte. Il pensiero cri-ti-co è la trasgressione più grande di tutte» (nostra traduzione). Il pensiero cri-ti-co è sillabato per accentuare una importante distinzione: ciò che merita di essere analizzato, scomposto ed eviscerato, contro ciò che va selezionato, sottratto ed eliminato. Creare, da imberbi esseri umani, degli audaci e intelligenti trasgressori dovrebbe forse essere la massima ambizione per ciascuno di noi. Mr Ringold avrebbe potuto fare altro nella vita, eppure decide di dedicare le sue giornate a plasmare dei ragazzetti. Così dovrebbe essere per molti di noi. L’insegnamento, al di là della retorica, dovrebbe essere la massima aspirazione di ciascuno di noi. Dovrebbe essere una liturgia, la volontà di chi ha le conoscenze e gli strumenti di costruire la società di domani attraverso i nostri figli.
Insegnare è anche un’attività complessa, impelagata in formule ripetitive, in rituali navigati di correzione e controllo, in automatismi formali e robotici, ma che al contempo si eleva e proietta (o almeno dovrebbe) all’innovazione, alla visione a 360°, alla curiosità e all’entusiasmo della scoperta incantata, libera e continua.
Creare una narrativa potente, vigorosa, anche quando l’ intento è uno scrutinio analitico, metodico e solido, richiede energia, impegno, ma anche molta immaginazione. Gli insegnanti, oggi, come ieri, molto spesso sono costretti (o si auto-costringono per abitudine e per rassegnazione?) dentro modelli reiterati e scontati, incastrati in un sistema immobile da generazioni, trasmesso dalla tradizione sedentaria e polverosa del banco, della cattedra, del programma da seguire.
Come si facilita il pensiero indipendente se costretti nella gabbia del manuale, del rituale «impartisco nozione, eseguo verifica?». Come si aiutano i giovani a trasgredire, a trovare la passione nell’ unica vera ricerca possibile, quella di chiedere criticamente «perché»? La separazione tra ciò che vale la pena e ciò che può essere sottratto non ha nulla a che vedere con sangue e sudore, o con l’imparare a memoria formule o declinazioni irregolari.
Il perché del pensiero critico è la forza di chi vuole essere un formidabile, audace e libero pensatore. Questo vale per l’insegnante e per lo studente. Ma non ci sono ricette o panacee. Nel disincanto, ma forse anche nella speranza, Roth conclude che la tirannia è sempre meglio organizzata della libertà. Che questa lunga estate serva a tutti noi, politica compresa, a riflettere sul nostro ruolo, a ridargli centralità e dignità, e quell’ attitudine verso il metodo, la scienza, la passione e l’entusiasmo di cui i nostri ragazzi e la nostra società hanno disperato bisogno.