La Stampa, 4 luglio 2017

Chi ha presentato la dichiarazione dei redditi si starà chiedendo se la pressione fiscale è giusta. Se quanto andrà allo Stato gli ritornerà in forma di servizi e benefici attraverso istituzioni che supportano davvero la convivenza. Molti, un numero sempre più crescente di lavoratori autonomi e partite Iva si starà invece domandando se ad essere giusti sono gli studi di settore. Tanti tra questi «self-employed» hanno dovuto affrontare il dilemma se il reddito percepito sia «congruo e/o coerente» con quello determinabile dall’ applicazione dei c.d. «studi di settore».

Durante gli anni della crisi e ancora oggi, molti non sono rientrati nei parametri stabiliti dal Fisco, perché hanno incassato di meno. In molti casi i professionisti hanno voluto dichiarare un reddito superiore a quello effettivamente percepito per evitare spiacevoli verifiche da parte dell’Amministrazione finanziaria. Così gli sarà stato suggerito dai loro studi di commercialisti il cui interesse è quello di evitare situazioni spiacevoli. Meglio rientrare negli studi di settore piuttosto che incorrere nel rischio di ricevere un controllo (un atteggiamento che potrebbe favorire un clima collettivista e non di libero mercato).

Altri invece, possono aver deciso di dichiarare il giusto, cioè quanto effettivamente incassato e non rientrare nello studio di settore. Avranno vissuto con la paura di dover giustificare le ragioni del mancato guadagno. Dovranno essere pronti a dimostrare che i minori ricavi non sono la conseguenza di un’ attività di elusione o evasione, ma di un effettivo ridimensionamento del giro d’ affari.

Non è normale. L’istituzione pubblica, che nelle liberaldemocrazie garantisce e tutela la convivenza tra cittadini, può interrogare e accusare i professionisti per non essere rientrato negli studi di settore. Piuttosto, l’istituzione pubblica dovrebbe mostrarsi preoccupata e provare a spiegare le ragioni economiche e sociali per cui le attività imprenditoriali sono declinate. Invece, l’istituzione pubblica e i suoi emissari presumono che il professionista ha incassato meno perché ha eluso o evaso. Questa concezione cancerogena e sbagliata ha le sue radici nel fatto che non siamo una liberaldemocrazia matura e i cittadini si considerano dei sudditi. In questo contesto le regole non servono a tutelare la convivenza ma ad imporre dei comportamenti che però possono, e forse devono, essere elusi appena possibile. Il rispetto della norma è per il suddito un comportamento etico quando dovrebbe invece, essere per il cittadino un interesse e una responsabilità dell’ individuo rispetto al più ampio insieme di conviventi.

Possiamo migliorare? Il governo ha compiuto un passaggio con l’introduzione degli indici sintetici di affidabilità.
Questi indici modificano il sistema degli studi di settore, con l’obiettivo di trasformarli da strumento con finalità repressiva a uno di accompagnamento alla conformità. I soggetti che, in base ai nuovi indicatori, risulteranno «affidabili», avranno accesso a significativi benefici premiali quali ad esempio l’esclusione o la riduzione dei termini per gli accertamenti e l’ accesso a un percorso accelerato per i rimborsi fiscali. Gli indici dovrebbero consentire di posizionare il livello dell’affidabilità fiscale dei contribuenti su una scala da 1 a 10 basandosi su un insieme di indicatori di affidabilità e indicatori di anomalia. Il primo effetto è che gli studi di settore non potranno più essere utilizzati dall’Amministrazione finanziaria per selezionare i contribuenti da controllare qualora emergesse una differenza superiore a determinate percentuali tra capacità reddituale dichiarata (quindi non solo ricavi come avviene tuttora) e quella ricostruita attraverso Gerico.

Il livello di affidabilità fiscale derivante dall’applicazione degli indici, unitamente alle informazioni presenti nell’archivio dei rapporti finanziari dell’Anagrafe tributaria, sarà tenuto in considerazione per definire specifiche strategie di controllo basate su analisi del rischio di evasione fiscale effettivo e non puramente teorico. E’ certamente un passo in avanti nella prospettiva di riforma del sistema fiscale anche se deve essere sperimentato. Ma il percorso verso la coltivazione di una liberaldemocrazia dove i cittadini sono protagonisti responsabili e non sudditi è ancora lungo. Il punto decisivo, prima ancora della questione aliquote, è quello di una concezione nuova del ruolo dello Stato e di quello dei cittadini. E lo sarà sempre più con l’evolversi dei rapporti economici in chiave immateriale.

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PNR