di Raffaello Morelli
La solita stampa attenta ai chiacchericci e disattenta a quel che conta, non ha dato il giusto rilievo alla lettera degli ex senatori Lamberto Dini e Natale D’Amico. Grossi personaggi della vita pubblica (il primo con incarichi di vertice in Banca d’Italia, al Fondo Monetario Internazionale, poi Presidente del Consiglio e Ministro degli Esteri), esponenti dal 1995 al 2008 di un petalo della coalizione Ulivo prima e dell’Unione poi, sempre assai addentro professionalmente alle questioni dell’economia e della moneta. La mancanza di rilievo è perché i due non sono del giro renziano e soprattutto perché, non essendolo, ragionano non per imbonire il cittadino ma per segnalare problemi veri con cui vanno fatti i conti.
L’occasione è stata la liquidazione delle due banche venete con le relative “incongruenze, mancate spiegazioni, debolezze dell’intero processo”. Dini e D’Amico iniziano sottolineando che la valutazione della qualità degli attivi condotta nel 2014, è stata affrontata in grave ritardo, il che ha accresciuto enormemente il volume delle risorse necessarie. All’inizio, attraverso il Fondo Atlante, vennero investiti circa 3,5 miliardi di euro, dichiarati risolutivi, mentre ora si scopre che le risorse necessarie sono quasi 5 volte. E già questo indebolisce gravemente la credibilità delle autorità, che è determinante per la stabilità del sistema finanziario.
Dini e D’Amico proseguono osservando che il far carico al contribuente dell’intero volume dei prestiti obbligazionari senior, non subordinati, non appare sufficientemente motivato, considerato che nel caso non esistono rischi sistemici. Del resto quelle obbligazioni, un mese or sono, venivano scambiate sul mercato intorno al 75% del nominale mentre ora verranno rimborsate per intero; e dopo il decreto dell’intervento pubblico quotano oltre la pari. Ciò assicura a chi le ha comprate un utile del 40% in un mese, a spese dei contribuenti. Non si capisce perché premiarlo, con soldi pubblici. In aggiunta, non è stato reso chiaro a tutti quali fossero le condizioni riservate a chi fosse intervenuto nella “good bank”. Vale a dire che lo Stato non solo si sarebbe fatto carico di tutti i crediti cattivi, anche di quelli che emergeranno nei prossimi tre anni, ma avrebbe anche fornito il patrimonio necessario per fronteggiare i normali rischi insiti nei prestiti “buoni”.
Oltretutto, queste debolezze nel processo seguito, si innescano su misteri già esistenti. Dini e D’Amico si interrogano sul perché nel 2012 l’Italia scelse di non ricorrere ai finanziamenti europei a sostegno della capitalizzazione delle banche, sostenendo che non ve ne era alcun bisogno. Dini e D’Amico osservano che “abbiamo pagato quella scelta con il più drastico razionamento del credito di cui si abbia memoria, gravemente pagato dalle imprese e tradottosi in un drammatico calo degli investimenti. Quel che è seguito testimonia quanto quei fondi europei ci sarebbero stati necessari”.
Tutto questo, concludono i due, pongono con urgenza il problema di che fare “per riavviare il percorso di costituzione di una vera Unione bancaria, dopo che, con le sue scelte, l’Italia ha scoraggiato partners di per sé riottosi”.
La lettera di Dini e D’Amico non ha avuto rilievo perché pone il dito sulla piaga della carenza strutturale nella gestione ad alto livello del sistema Banca d’Italia. Una gestione che fa acqua da molte parti e su cui non c’è abbastanza trasparenza, visto che si insiste a gettare fumo negli occhi del contribuente sostenendo che la soluzione è dietro l’angolo e non è vero. Infatti l’UE continua, anche in questa settimana, a subordinare il rinnovo della flessibilità invocato da Padoan alla riduzione della spesa pubblica e al ritocco del debito accumulato, questioni di fatto non all’ordine del giorno della politica italiana.
Siamo ormai a circa sette mesi dalla scadenza ordinaria della legislatura. Diverrà sempre più arduo arginare l’ondata populista se anche in Italia, come hanno fatto altri paesi europei, non verrà abbandonata la strategia dell’imbonire il cittadino: da un lato con criteri di governo parolai ed oscillanti, incapaci di incidere sui problemi, e dall’altro con criteri di alternativa centrati sul fare un fascio delle idee più disparate, usando la paura della sinistra ed evitando di costruire davvero meccanismi aperti di libere relazioni civiche. I cittadini hanno diritto di essere trattati come persone capaci e responsabili. Devono attendersi notizie vere su quanto avviene e ascoltare progetti precisi su cosa fare prioritariamente. Per poter scegliere a ragion veduta.