di Raffaello Morelli
L’articolo di Pietro Paganini sui metodi di insegnamento (La Stampa, 27 giugno) svolge considerazioni di rilievo sulla nuova impostazione da dare all’insegnamento in Italia (ora imperniato sulla lezione frontale, l’insegnante che trasferisce nozioni e i ragazzi che prendono nota, memorizzano e poi ripetono). La deduce dai risultati ottenuti dalle ricerche: si ottiene di più nel caso “l’insegnante divenga una guida e soprattutto un provocatore che stimola il senso critico, mentre i ragazzi sono chiamati a risolvere problemi più che a ricevere informazioni generiche su come altri hanno risolto quegli stessi problemi”. Bene. Penso vada aggiunta un’osservazione chiave. Il nuovo modo di insegnare che l’articolo auspica, non è un tecnicismo isolato. Appartiene ad un quadro più generale emerso anch’esso dall’esperienza storica, quello degli strumenti che fanno da cornice naturale al processo incessante del conoscere quale oggi si intende.
Il tradizionale metodo di insegnamento corrisponde ad una concezione del conoscere legata allo studio del già conosciuto e dedita solo in piccola parte allo sforzo di conoscere ancora. Ciò in base alla convinzione – dominante per secoli in modo pressoché esclusivo – che conoscere serva a svelare il modello perfetto del mondo (delle cose e dei viventi) ritenuto eterno. In altre parole, quella concezione non nega la poliedrica variabilità del vivere, ma esclude che esso abbia valore primario e lo riduce ad un agitarsi scomposto nell’attesa che qualche evento o persona ricomponga del tutto i pezzi dell’infinto mosaico che è quel modello eterno e perfetto. Rispetto a tale modello, il tempo fisico è un attributo ben poco influente (se non addirittura illusorio) e perciò il tempo passato equivale a quello futuro. Così, il già conosciuto è visto come la migliore espressione al momento di quel modello di mondo, incombente e velato. E costituisce il conformismo di riferimento ineludibile in cui si agisce e si formulano doveri morali di comportamento. Perfino cercando di piegare i fatti alle nostre attese e non riconoscendo loro il ruolo fondante nel percepire il reale. In tale quadro complessivo, l’insegnare tradizionale può proporsi solo di indottrinare sul passato, che già è conosciuto e che anzi si cerca di scandagliare più a fondo. Il futuro si misura sulla capacità di applicare il passato. Per questo, nella tradizione, è ricorrente il rimpianto fasullo (e conservatore nel profondo) del “si stava meglio prima”.
Il passare dei decenni – tanti – ha via via mutato una simile impostazione, finendo per ribaltare la prospettiva del come concepire il tempo fisico e come pensare il concetto di modello fondamentale. Ha cominciato col crescere la consapevolezza che conoscere una cosa o un vivente non significa conoscere l’una o l’altro una volta per tutte. Cose e viventi (tra cui gli esseri umani con le loro irriducibili diversità individuali) non sono immutabili, evolvono seppur con ritmi e modalità variegate a dismisura. Il tempo fisico diviene sempre più il riconosciuto pilastro portante del nostro esistere. Allora si sgretola anche l’idea stessa di modello perfetto ed eterno e man mano si dissolve. Il che rende essenziale il metodo di verificare il più possibile (pure nella frequenza del farlo) i meccanismi del reale, sia per avere conferma di quanto già si suppone conoscere (e che potrebbe non risultare più esatto) sia per tentare di cogliere altri aspetti e relazioni non ancora conosciuti (e pure per correggere teorie interpretative antecedenti). L’obiettivo del conoscere si trasforma. Non è più esser padroni del conosciuto per replicarlo bensì impegnarsi a capire l’essenza di quanto ancora non si è compreso in tutto o in parte così da poter risolvere problemi sempre nuovi. Ne consegue che la verifica dei meccanismi del reale comporta promuovere non solo il metodo sperimentale ma insieme l’attitudine individuale ad applicare il proprio spirito critico nell’osservare come sono connessi i fatti, nel proporre spiegazioni innovative e nel valutare i risultati delle nuove iniziative.
Il futuro non è più concepito come una rigida conseguenza di quanto previsto secondo uno schema deterministico, ma fluttua sotto l’influenza anche dei nostri comportamenti e in genere dell’evolversi ambientale. E pure il diritto a conoscere il passato degli avvenimenti pubblici e relazionali – tra cui ovviamente la scienza di base, che non è assoggettabile a brevetti commerciali –, non ha un corrispettivo equivalente nel diritto a conoscere il futuro. Innanzitutto poiché certe porzioni del conoscere l’evolversi futuro possono essere nascoste dal rientrare nel legittimo diritto al privato del cittadino, ma essenzialmente perché, anche le parti che non vi rientrano, non sono configurabili come un diritto. Di fatti, il conoscere il futuro non è disponibile dietro ordinazione. Dipende dalle caratteristiche capacità individuali, dall’impegno nell’applicarsi a studiare la questione, dalla costanza nell’effettuare prove sperimentali, dai riscontri positivi avuti, dalla difficoltà del problema da affrontare ed anche dalle risorse investibili. Conoscere il futuro non è un diritto civile, ma una conquista faticosa. Oggi il modello fondamentale non può più esistere. Diviene un edificio trasformato di continuo dall’iniziativa umana, senza una configurazione del tutto prevedibile e definitiva.
Ritengo che derivino da questo quadro complessivo il senso e l’esigenza del nuovo insegnamento che auspica Pietro Paganini. Partendo dal processo incessante del conoscere nell’odierna accezione, discende naturalmente la richiesta di ragazzi chiamati a risolvere problemi e di insegnanti capaci di allenarne lo spirito critico. Mi pare indispensabile averne consapevolezza e applicarsi a realizzarlo.