Lavorare, 20 luglio 2017

Pietro Paganini, Presidente di Competere, ha cortesemente concesso un’intervista alla redazione di “Lavorare”, sui risultati dell’indagine International Property Rights Index 2017.

Dallo studio elaborato dall’IPRI, che Competere ha presentato in esclusiva in Italia, si evince chiaramente che, nonostante gli sforzi per incentivare gli investimenti in ricerca e sviluppo e rendere attrattivo il paese per gli investimenti stranieri attraverso l’introduzione del Patent Box, l’Italia è ancora in netto ritardo quando si parla di proprietà intellettuale. È solo una questione di regole o ci sono problematiche più strutturali?

Paradossalmente il problema non sono le norme, che non mancano, bensì la difficoltà nell’applicarle e nel farle applicare. Il Patent Box ha assunto da subito il profilo di un’architettura troppo complessa, forse troppo sofisticata e di poca sostanza per il tessu-to produttivo italiano, ma le intenzioni erano buone. L’idea, fra le altre, era quella di invitare i soggetti già attivi nell’ambito della proprietà intellettuale a operare un’attenta analisi e valutare la possibilità di dare vita a nuove imprese in Italia e di far rientrare nel nostro Paese tutti quei beni immateriali detenuti all’estero. Questo non è successo perché l’applicazione del Patent Box è stata incoerente e farraginosa. Ma i problemi sono altri e, appunto, strutturali. Ad alcuni può non piacere, ma viviamo in un mondo globalizzato, e così è la competizione fra beni e servizi, le nostre PMI faticano sempre di più a trovare le risorse per tutelare marchi e brevetti.

Come si devono muovere le PMI italiane all’interno di tanta competizione internazionale, dato anche il gap digitale che le contraddistingue da tante imprese straniere?

I dati dell’OECD sostengono che il gap competitivo dell’Italia con la Germania è concentrato nelle nostre nanoaziende, che però hanno il 90% dei lavoratori. La sfida dimensionale delle nostre PMI deve diventare una priorità per il Paese perché l’Italia ha un debito verso di loro. Le imprese oggi devono crescere, devono mettersi in discussione, devono criticarsi, investire nel management, e soprattutto devono provare a consolidarsi e internazionalizzarsi.

Vedere l’Italia raggiungere nell’Indice una posizione così bassa fa sorgere una domanda naturale: dobbiamo aspettarci un impatto negativo anche sui giovani?

Non c’è da aspettarsi nulla. L’onda li ha già travolti. L’Indice sottolinea una relazione importate: i Paesi che tutelano maggiormente la proprietà intellettuale crescono più stabilmente, sono più competitivi e innovativi. Senza crescita, competizione e innovazione cosa possiamo offrire ai nostri ragazzi? La disoccupazione giovanile è tornata a salire, parliamo di una percentuale intorno al 37%. Il nostro Paese è un cane che si dilania la coda: da una parte i nostri sono i giovani che studiano meno in Europa ma dall’altra le statistiche confermano l’incapacità strutturale di integrare le forze più fresche e qualificate, da parte del sistema produttivo e industriale. I giovani non sono la classe dirigente, non hanno né gli strumenti né i luoghi per ragionare in un’ottica di sistema, né sono tenuti a farlo. La classe dirigente, invece, gli strumenti e i luoghi per ragionare ce li avrebbe ecco- me. Proviamo quindi ad aggredire il problema dal lato dell’offerta di lavoro, cercando di capire come sia possibile che l’Italia snobbi un buon capitale di venti-trentenni. La disoccupazione è un problema, non un alibi.

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PNR