di Lorenzo Castellani
Michel Crozier, importante sociologo francese, scriveva sul finire degli anni ottanta che lo Stato del futuro sarebbe dovuto essere uno “Stato modesto”, capace di regolare, selezionare competenze, valorizzare le leadership politico-amministrative e soprattutto valutare i risultati delle politiche più che gestire in prima persona i servizi pubblicicon l’arroganza del padrone e del tecnocrate. La triste vicenda del razionamento dell’acqua in diverse zone d’Italia, tra cui forse la Capitale, per siccità s’inquadra bene nelle categorie dello studioso francese, il quale amava sottolineare come la risoluzione di problemi amministrativi non risiedesse tanto nel contrapporre lo Stato e il Mercato, quanto nella capacità di “organizzare” la libertà.
Nella vicenda dell’acqua pubblica italiana c’è un ottimo caso di studio sull’amministrazione italiana e le sue problematiche. Andiamo per ordine e per argomenti:
a) C’è la disonestà della politica ovvero il referendum del 2011. Combattuto in nome del “pubblico” contro gli interessi del “privato” il referendum è stato cavalcato da gran parte delle formazioni politiche che oggi gridano allo scandalo (PD, Movimento 5 Stelle, Sinistra varia e pezzi di centrodestra). La privatizzazione agitata come uno spauracchio per non perdere potere locale, non adeguarsi alle norme europee e sconfiggere il governo in carica in un voto referendario. La questione, in realtà, non era la gestione della rete idrica in sé, ma il mantenimento generalizzato degli affidamenti in-house senza gara e il mantenimento della maggioranza pubblica delle società municipalizzate nell’erogazione dei servizi pubblici locali. In tre parole: poltrone, soldi, potere. Poco importa, ad esempio, che l’ACEA sia quotata in borsa e organizzata come una società privata perché le nomine dei vertici sono saldamente nelle mani del Sindaco di Roma e l’affidamento del servizio costruito su misura. E così in altre centinaia di società partecipate.
b) La questione della concorrenza. In Italia i monopoli vanno di moda e poco importa che siano concessi a società pubbliche, semipubbliche o private: di mettere tutti i servizi a gara la politica italiana non ne vuol sentire parlare. Tuttavia, concorrenza non deve significare necessariamente “privatizzazione” del servizio, se la società municipalizzata o mista risulta la migliore nel fornire un determinato servizio, è finanziariamente sana e ha rispettato gli obiettivi dei precedenti contratti bene che vinca la gara d’appalto.
c) La mancanza di vincoli sugli obiettivi del servizio. Se una amministrazione pubblica o il governo sono a conoscenza di un problema nella rete idrica devono regolare il servizio in modo che i gestori pongano rimedio. Ad esempio, perché non si sono vincolati gli utili delle società partecipate al risanamento della rete idrica? O non si sono incentivate ad investire sulle strutture? Invece si sono affidati senza gara gestioni di servizi pubblici senza indicare e vincolare le priorità e gli obiettivi da raggiungere.
d) La valutazione che non c’è. Questa è una tara storica dell’amministrazione pubblica italiana ovvero il mancato monitoraggio dei risultati ottenuti dai fornitori dei servizi pubblici. Bisognerebbe, invece, fissare degli obiettivi e verificarne il rispetto. Ad esempio, se come Regione o Comune sono a conoscenza che le tubature perdono il 50% dell’acqua trasportata non mettere una riduzione percentuale delle perdite nel contratto d’appalto? Dopo cinque anni l’amministrazione valuta i risultati, se gli obiettivi sono raggiunti o meno e decide cosa fare rispetto al fornitore del servizio.
La combinazione di questi quattro fattori determinerà sicuramente, al di là di come verrà risolto il problema della siccità, una conseguenza a carico del cittadino: o l’aumento della bolletta dell’acqua o l’aumento della tassazione volta a finanziare i servizi pubblici locali. Come sempre accade chi ci rimette è il contribuente, non il politico o il partito che sponsorizzava il referendum sull’acqua pubblica.
Da ultimo la vicenda offre lo spunto per qualche riflessione più generale sulle politiche pubbliche in Italia, anche considerando la prospettiva storica. Possiamo sintetizzarle così:
1) Le politiche concorrenziali sono difficili da introdurre, ma facilissime da smontare a colpi di referendum, normazione secondaria, scarso rispetto delle norme. Non si può pensare di liberalizzare un settore senza occuparsi, già in partenza, di tutto il processo organizzativo e di monitoraggio che deve seguire. Il rischio è quello di trasformare i monopoli pubblici in privati o di far rientrare il pubblico dalla finestra e senza concorrenza;
2) Al contrario degli altri Paesi europei che hanno avviato negli ultimi trent’anni un sistema per la valutazione delle politiche pubbliche e dei dirigenti pubblici ad esse preposti in Italia non si è riusciti, salvo rari casi, ad implementare un sistema di reporting e ripartizione degli incentivi economici sulla base delle performance di chi fornisce servizi pubblici;
3) Le uniche riforme facilmente azionabili in Italia sono quelle esclusivamente di cassa (es. taglio alle pensioni), mentre il cambiamento tende ad impantanarsi quando sono necessari non solo cambiamenti finanziari, ma anche organizzativi (basta prendere le varie riforme e vedere dopo 5 anni quante sono state effettivamente implementate da governo centrale e governi locali);
4) La politica tende a concentrarsi, oltre che sulle rendite di posizione, esclusivamente sulla norma. Quante volte abbiamo sentito associare i concetti “nuova legge” uguale “riforma”? Non è così, per riformare servono anni di cambiamenti organizzativi, monitoraggio, valutazione;
5) La deroga, cioè l’eccezione, all’applicazione di determinate norme che informano una politica pubblica.Questo è un fenomeno che si è verificato molto proprio nei servizi pubblici locali: gli affidamenti concessi in deroga perché si era verificata una situazione di emergenza. Era il fenomeno, per capirsi, che sfruttava la Camorra nel napoletano per prendersi gli appalti sulla gestione dei rifiuti. Creare l’emergenza, derogare le regole, divenire eccezione al normale regime regolatorio, ottenere un privilegio monopolistico. Tanto a pagare, con imposte o tariffe e con pessimo servizio, saranno i cittadini.