di Raffaello Morelli
Il Codice del Ministro dell’Interno sui porti e le ONG è un passo di rilievo nella politica concreta. Finalmente il governo guarda al problema immigrazione per governarlo con realismo e non per farne il vessillo populistico di lotta tra ricchi e poveri. Tuttavia non è certo un problema chiuso.
Il viceministro Giro (Esteri) ha definito il riportare i migranti in Libia condannarli all’inferno. Una sensibilità di cattolico della Comunità di S. Egidio, nel solco dell’approccio del mondo cattolico e dell’ala sinistra della maggioranza: dal viceministro dell’Agricoltura, Olivero, alla sottosegretaria Boschi, alla prodiana Zampa, all’ex SEL Piazzoni, a Scotto del MDP. E soprattutto i due ministri, Delrio, più apertamente, e Alfano, più felpato. Il Presidente del Consiglio ha subito ripreso Giro ma non abbastanza da garantire la partecipazione del Ministro dell’Interno al Consiglio dei Ministri. Allora – visto che l’assenza aveva indispettito Ministri dell’area cattolica e di sinistra (Fedeli, Orlando, Madia, Martina) – ha chiesto che la linea del Governo fosse certificata. E il Quirinale, senza esitazione, ha fatto trapelare il grande apprezzamento per l’impegno del Ministro dell’Interno sul fenomeno migratorio, in particolare sul Codice per le ONG, con larga convergenza parlamentare. Giudizio condiviso dalla CEI.
Chiuso il tentativo di ridiscutere il Codice, è proseguito il dissenso dei fautori della politica populista di piena accoglienza, cui non pochi giornali hanno dato risalto per affinità. Lungo due linee. La prima lamenta che l’Italia è stata lasciata sola dall’UE. Il che non è vero sotto molti aspetti: dall’avere accettato nel ‘14 il far approdare in Italia tutte le ONG come contropartita per ottenere più flessibilità nella nostra gestione economica, fino al fingere di non vedere il rifiuto di molti paesi europei dei migranti (in questi giorni truppe spagnole hanno sparato due volte ai subsahariani che volevano entrare a Ceuta, città spagnola nel nordafrica). La seconda linea è la resistenza del Ministro Delrio, che ha indotto la Guardia Costiera a prelevare in acque internazionali 180 migranti da una nave di una delle ONG non firmatarie del Codice. Ciò in base alla sua forzata interpretazione delle Convenzioni internazionali, per cui, tramite acrobazie logiche, teorizza che il soccorso in mare è obbligatorio a prescindere.
Lo slogan di Delrio è “facciamo la guerra agli scafisti, non alle Ong”. E’ uno slogan inconsistente, poiché il Codice sui porti esercita la sovranità italiana nel regolare l’approdo di navi ONG. Il nodo politico sta in un’altra frase di Delrio (“non possiamo venire meno agli obblighi umanitari, il soccorso in mare non è discrezionale”), che affastella parole dal significato fluttuante e che travalicano la contemporanea dichiarazione del Ministro degli Esteri: “sono contrario a ogni derby tra rigore e umanità, tra regole e solidarietà, tra sicurezza e diritti umani. L’Italia deve continuare a essere il Paese che ha sposato entrambi gli aspetti”. Anche accettando per buona tale dichiarazione nonostante la sua incoerenza intrinseca, ai due ministri resta l’obbligo politico di precisare una strada per realizzarla senza negare i fatti. Questo è il punto.
Innanzitutto, non possono nascondersi dietro la tesi del soccorso inevitabile, che, quando riguarda funzioni istituzionali, va rapportata alle circostanze cui si applica. E’ del tutto legittimo che privati come Médecins sans frontières chiedano: “se tu stessi guardando negli occhi una persona che sta annegando, cosa faresti?”. Invece le istituzioni, prima di agire e destinare risorse pubbliche, hanno l’obbligo prioritario di non emozionarsi, di capire il quadro e se le risorse consentano l’intervento. Le convenzioni presuppongono l’esistenza di condizioni predefinite al soccorrere in mare singoli o gruppi di singoli. L’attuale fenomeno di migrazioni nel Mediterraneo non rientra affatto in tali presupposti, sia rispetto alle quantità di persone da soccorrere (che non è misurabile con il parametro individuale, è enorme e di lunga durata, specie rapportata ai nostri mezzi) sia rispetto alle cause immediate del pericolo (le difficoltà sono effettive ma visibilmente programmate dagli scafisti). Le istituzioni devono diagnosticare le cause di questo esodo epocale ma non possono supporre di risolverle con l’accoglienza indiscriminata, che richiede mezzi mancanti e agevola imbrogli. Insistere in tale supposizione e non avvertire la continua tensione tra rigore e umanità, tra regole e solidarietà, tra sicurezza e diritti umani , pretendendo di sposare entrambi gli aspetti, tacita a parole la coscienza, esprime bontà ma in pratica abdica ai compiti politici, divorando il futuro della convivenza.
Chiarito l’obiettivo istituzionale, occorre pure essere consapevoli che i fautori dell’accoglienza indiscriminata proseguiranno (cosa legittima in una liberaldemocrazia) ad inseguire i sogni di cattolici terzomondisti e l’utopico dover essere tipico della sinistra. Si distinguono ad oggi l’ufficio immigrazione della Caritas e il direttore di Avvenire, che trova sensato il rifiuto di firma di gran parte delle ONG. In generale, per avvalorare il principio umanitario, quei fautori citano ora l’emigrazione italiana, da fine ‘800 in poi, tessendo paragoni strappalacrime che vanno al di là del disagio che spingeva a partire. Paragoni improponibili perché l’emigrazione italiana in cerca di lavoro venne regolata, prima nel 1888 e poi nel 1901, con leggi organiche dell’emigrazione volte ad abbattere i soprusi degli speculatori, informare gli espatrianti, far osservare precise garanzie e cautele nel trasporto, imporre norme sanitarie ed igieniche, proteggere i migranti nei porti. Nel periodo della politica liberale, dal 1900 al 1914, la massiccia emigrazione, in media circa 600 mila l’anno, fu concepita come riequilibrio socioeconomico e quindi assistita, organizzata e diretta verso tre continenti in una quindicina di paesi che volevano attrarre il flusso dei migranti.
Dunque, non assecondare paragoni improponibili e non smettere di battersi perché l’imponente migrazione non si affronti mai con il buonismo controproducente dell’accoglienza indiscriminata. Ci vogliono progetti che siano sostenibili e possano incidere sulle cause all’origine. I liberali insistono che il progetto politico centrato sull’immigrazione va commisurato alle risorse e non confuso né con il codice penale da applicare in caso di violazione delle relazioni indotte né con il populismo del cambiare iconoclasta a prescindere dal preciso confronto progettuale tra i cittadini diversi.