di Benedetta Fiani

Secondo una nobile tradizione liberale il controllo popolare dovrebbe agire da antidoto contro il ricorso indiscriminato alla violenza. Jeremy Bentham sosteneva che per limitare la guerra fosse necessario abolire la segretezza dell’operato del ministero degli Esteri: questo avrebbe consentito ai cittadini di accertare che la politica estera fosse conforme ai propri interessi piuttosto che a quelli di una ristretta elitè. James Madison riteneva che per far diminuire le guerre fosse necessario assoggettare la volontà del Governo a quella del popolo.

Tutti ragionamenti basati su una logica utilitaristica: assoggettare l’esecutivo alla volontà popolare consente di far prevalere gli interessi generali. Eppure, tante belle speranze sono smentite dalla storia e dalla statistica. Infatti l’incidenza delle guerre combattute dalle democrazie è pressoché a quella delle autocrazie. Rimane vero un fatto: le democrazie sono, in proporzione, leggermente meno coinvolte nei conflitti delle autocrazie e che le guerre combattute da loro sono leggermente meno sanguinose. Le democrazie, infatti, dimostrano una maggiore resistenza a mettere a repentaglio la vita dei propri soldati e dei propri civili; nello stesso tempo hanno iniziato a considerare l’obiettivo di minimizzare le perdite tra la popolazione non belligerante dei paesi avversari. È comunque singolare che uno dei principi costitutivi della democrazia, la nonviolenza, sia esteso all’esterno così poco e così male.

Perché la democrazia ha avuto così scarso successo nel ridurre i conflitti?

Si potrebbe ritenere che non necessariamente una guerra sia contraria agli interessi di uno stato, quando i danni sono limitati e più che ricompensati dai benefici distribuiti non solo fra l’elitè, ma anche fra l’intera popolazione.  Inoltre, il quadro strategico dei conflitti è cambiato radicalmente negli ultimi decenni: le guerre combattute dalle democrazie in Iraq (1991), Kosovo (1999), Afghanistan (2002) e di nuovo in Iraq (2003), si sono risolte con un numero di vittime fra soldati dei paesi democratici assai più basso delle “vittime nemiche”. Grazie alla supremazia tecnologica, gli Stati Uniti e i loro alleati sono riusciti a ridurre al minimo i danni subiti. Se queste guerre abbiano prodotto dei benefici alle popolazioni democratiche è del tutto discutibile, ma se non abbiamo assistito a sollevazioni di protesta come accadde per la guerra in Vietnam, è probabilmente connesso al limitato numero di perdite.

È decisamente esplicita una caratteristica inquietante delle democrazie contemporanee. Da una parte sono totalmente progredite da disporre di mezzi e tecnologie capaci di vincere una guerra (che è diverso però dall’ottenere la pace), con perdite limitate o comunque inferiori rispetto ai nemici, dall’altra non dimostrano la volontà e la capacità di risolvere i conflitti internazionali con mezzi diversi dalla guerra e più simili a quelli utilizzati all’interno dei propri confini.

Insomma, non avevano torto i pensatori liberali a ritenere che la guerra sia spesso contro l’interesse dei cittadini e che il controllo popolare possa essere un rimedio contro la guerra, ma si tratta di trovare i dispositivi per renderlo più efficace.

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PNR