di Camilla Bistolfi
“Le parole fanno più male delle botte, cavolo se fanno male”. Così scriveva Carolina Picchio nella sua ultima lettera, prima di togliersi la vita per i (tristemente) noti episodi di cyberbullismo che l’avevano vista coinvolta.
In un mondo connesso, fatto di migliaia di utenti che leggono, commentano e condividono contenuti ovunque e in qualsiasi momento, le parole acquisiscono, in effetti, una forza immane. Ma si fa presto a condannare la natura “ubiqua” di Internet per la cyber-violenza che dilaga tra i più giovani.
Il web non è un demone e neanche i social network lo sono. Sarebbe più produttivo evitare di attribuirgli una personalità malvagia e destinare all’essere umano che lo utilizza le responsabilità di ciò che ne viene fuori. Le cose, gli oggetti, la rete, non sono pericolosi in sé: lo diventano se chi li usa lo fa irresponsabilmente. Ma se fosse proprio il web a dare alle persone la possibilità di responsabilizzarsi e di fare qualcosa per gli altri?
I giovani ricevono molte informazioni relative a cosa NON fare quando si naviga e come NON comportarsi quando si interagisce virtualmente. La consapevolezza è indubbiamente il primo passo per prevenire la cyber-violenza. Ma consapevolezza non è solo rispettare doveri e divieti, è anche sentirsi socialmente responsabili in uno spazio comune, come quello del web, considerando che esso offre a tutti la possibilità di intervenire per far valere i diritti di chi non riesce a difendersi.
Durante i primi mesi di attività del Centro Nazionale Anti-Cyberbullismo, si è potuto osservare che ad essere immediatamente a conoscenza delle cyber-violenze è sempre la comunità online della vittima. Ma non vedendo lividi o espressioni afflitte sul volto di chi è perseguitato, i ragazzi non hanno la percezione concreta della situazione e tendono a pensare che siano eventi scollati dalla vita offline. Tuttavia, reale e virtuale ormai coincidono e la vittima lo sa bene. Essere spettatori e osservare in silenzio senza sentirsi chiamati ad arginare le prepotenze, alimenta le azioni del cyberbullo, che sa di essere osservato, letto, visualizzato, senza ricevere alcuna opposizione o sanzione social(e). Allora, per contrastare la cyber-violenza non basta solo prevenirla, bisogna anche saperla arginare, riconoscendo le responsabilità che si hanno nel momento in cui si decide di entrare nel mondo del web. Non più solo senso civico, dunque, ma anche senso cyber.
Offline una delle costanti nel rapporto tra vittima e aggressore è il silenzio che regna sovrano. La paura fa ammutolire chi subisce, la vigliaccheria o l’impotenza rendono conniventi gli spettatori – quando ce ne sono. Ma la rete riesce a rendere visibile quella violenza che normalmente sarebbe nascosta e confinata nello spazio e nel tempo, dando voce a chi, nella vita reale, non avrebbe neanche saputo o potuto fare nulla. Il fatto di avere accesso a ciò che succede, poterlo segnalare senza subirne le conseguenze “fisiche”, può aiutare lo spettatore a farsi avanti, liberando la vittima dal suo persecutore.
Le parole hanno ferito a morte Carolina Picchio, ma Jean-Paul Sartre diceva: “Ogni parola ha conseguenze, ogni silenzio anche”: sarebbe bene ricordarlo ai giovani, nell’era in cui la violenza passa anche dalla cyber-omertà.
Il Centro nazionale anti-cyberbullismo (CNAC) intende offrire un primo consulto legale gratuito, in modo da permettere alle vittime di cyberbullismo e abusi online (o alle loro famiglie/insegnanti) di essere nella condizione di conoscere e poter esercitare i propri diritti.