di Raffaello Morelli

La tentazione di procrastinare può cogliere ognuno. Per tante ragioni, percepite perfino come intento virtuoso. Ad esempio, aver tempo per maturare meglio il problema da fronteggiare oppure per valutare a fondo le conseguenze di una decisione soppesando le alternative oppure per ricuperare le energie necessarie oppure per attendere un momento più adatto. Ma al di là delle giustificazioni, il continuo rimandare il fare qualcosa maschera, salvo rare eccezioni, il desiderio di non impiegare il proprio tempo per svolgere qualche compito o di dedicarsi ad attività solo ludiche o di non affrontare scadenze non gradite.  Così, qualora la propensione a rimandare al domani divenga endemica, costituisce un problema per il convivere.

Non perché ognuno non abbia il diritto di scegliere i propri ritmi di vita. Ma perché vivere rinviando costantemente a domani quello che può esser fatto oggi, equivale a ridurre molto l’attività dell’individuo, qualunque essa sia. E se un simile ritmo di vita diviene abituale per un numero sempre più ampio di cittadini, il relazionarsi di quei conviventi ne risente parecchio. È un fattore più negativo di quanto lo fosse una volta.

L’intera vita umana è ancor più legata alla dinamica del passar del tempo (principale conseguenza del rapido accelerare della tecnologia di trasmissione ed informazione che ha innescato impreviste possibilità di fulminee relazioni globali) nonché all’agire e al pensare nella prospettiva futura. Oggi, se un problema non viene affrontato quando si presenta o uno studio in qualunque settore non viene effettuato con impegno e dedizione serrati, è molto probabile che lo affrontino altre persone magari ubicate lontano. Tutte persone con la caratteristica di essere meno tentate dal procrastinare.

Attualmente, in Italia, la tentazione di procrastinare è assai forte. Si è formata, per motivi storici, una specie di bolla culturale, in cui non solo domina il crogiolarsi nel presente trascurando ciò che potrà avvenire, ma addirittura si agisce come se il tempo non passasse e si adottano logiche eternizzanti e statiche (vale a dire di stampo ideologico e religioso).  L’attitudine a procrastinare è pervasiva. E non trovando un contrasto concettuale, ha ormai superato il livello di guardia in ambito istituzionale. Soprattutto nella vasta categoria addetta alla gestione dei meccanismi pubblici, la burocrazia. La quale influenza anche gli organismi politici ad essa preposti (portati a ritenere un destino ineludibile il procrastinare le opere pubbliche) e perfino i cittadini (che ironizzano pesantemente sui ritardi dello Stato ma non agiscono per rimuoverli). Di fatti, i cittadini preferiscono sognare rassicuranti soluzioni utopiche invece di punire i responsabili non votandoli o, quando li puniscono, privilegiare chi fa promesse irrealistiche piuttosto che chi presenta progetti innovativi completi di tempi per realizzarli, cioè fattibili e perciò stesso non utopici.

La propensione a procrastinare va contrastata, non con provvedimenti impositivi ma spiegando con insistita determinazione i danni che provoca alle condizioni del convivere. Il rinviare un lavoro pubblico, una vaccinazione, un intervento finanziario, un innesto agricolo, il modificare il sistema educativo obsoleto, l’effettuare un servizio postale, l’eseguire un soccorso sociosanitario, lo svolgere ricerche e indagini nell’ordine pubblico, il controllare il funzionamento dei meccanismi istituzionali per aggiustarli, e così via, fatto su larga scala e alla lunga, produce guasti gravi sul clima del convivere. Guasti simili l’Italia di oggi non se li può più permettere.

In particolare, ad esempio, l’Italia ha un problema improcrastinabile. Quello di un debito pubblico enorme, intorno al 133% del PIL, che è continuato a crescere tanto negli ultimi anni nonostante i tassi di interesse molto bassi, cioè dimezzati dalla politica di riacquisto dei titoli pubblici della BCE. Qui non approfondisco il significato della politica di riacquisto (comunque, tenendo i tassi bassi, non stimola i governi a ridurre le spese). Ma, a parte le ragioni della BCE nel fare questo (cioè non procrastinare il sostegno ai paesi UE), esse vanno venendo meno e la BCE ha ora deciso una seconda riduzione degli acquisti portandoli da 60 a 30 miliardi€ mensili dal 1 gennaio 2018. Questa riduzione coincide in Italia con almeno un trimestre dedicato alle elezioni politiche. Dunque è facile prevedere – tenuto conto come in Italia la timidissima ripresa sia la metà degli altri UE – che gli investitori, soprattutto quelli esteri, non correranno a sottoscrivere i titoli italiani. Pertanto ci sarà una spinta all’aumento degli interessi. Ora, un semplice calcolo. Il debito pubblico accumulato non crescerebbe, nell’ipotesi che i tassi restassero sul 2%, solo a condizione che il PIL annuo toccasse almeno il 2,7%. Invece – tanto per dare un’idea delle dimensioni in ballo – qualora i tassi arrivassero al 3%, la stessa condizione esigerebbe che il PIL lievitasse al 3,95%. Una dimensione del genere non viene raggiunta dal 2001. Quindi proseguirà la salita del debito.

Se in Italia vogliamo riconquistare il benessere economico e il lavoro, è urgente smetterla di procrastinare la drastica riduzione del debito pubblico che strangola i conti pubblici e il taglio  dei lacci che vincolano il funzionamento della macchina produttiva (cominciando dalle gravissime lentezze burocratiche, vedi gli aiuti ai terremotati in crescente ritardo o la ritrosia della pubblica amministrazione nel pagare i debiti o la ritrosia dei magistrati nel fissare tutte  le date del processo civile all’inizio, come per legge, rispettandole). Insieme bisogna cessare di procrastinare il risanamento del sistema produttivo, perché, specie nel mondo globalizzato, non si può vivere fingendo di distribuire il denaro non prodotto e confidando che le risorse altrui verranno sempre in nostro soccorso senza limiti di quantità e di tempo. La mentalità del procrastinare è un lusso ormai fuori della nostra portata.

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PNR