di Benedetta Fiani

Qualche tempo fa, all’Università di Princeton venne diffusa una nota che invitava lo staff a non utilizzare la parola man per riferirsi a individui il cui genere non fosse noto; a Yale furono proibiti i costumi di Halloween etnici perché avrebbero potuto offendere le minoranze per indebita appropriazione culturale; all’Università di Seattle fu sospesa una docente colpevole di aver pronunciato il titolo di un libro Nigger: An Autobiography di Dick Gregory: c’è chi aveva valutato una nota razzista il quel nigger.

Sembrano episodi lontani e anche piuttosto ridicoli, ma non va sottovalutata la sensibilità che esprimono. Esiste anche in Europa una tendenza a smettere di chiamare i problemi con il loro nome, come se così facendo ne venisse disinnescato il potenziale distruttivo.

Conosco persone che si rifiutano di parlare di terrorismo islamico per non offendere il vicino di casa musulmano, mentre in Francia è proibito raccogliere dati che tengano conto di etnia e religione degli intervistati.

Nell’America caciarona e disarticolata di Donald Trump, c’è chi nota un eccesso di political correctness nei campus americani. Un clima di censura e autocensura, una sorta di reazione compensativa al qualunquismo culturale.

O forse è solo un’altra faccia di un’America sempre meno libera. Inutile negarlo, alcuni guardano con sospetto tanta indignazione poiché nasconderebbe il risentimento di una parte di popolazione un tempo dominante nei confronti delle minoranze che stanno facendo vacillare antichi privilegi.

Si sta delineando una cultura del vittimismo, per cui essere parte di un gruppo oppresso offre un prestigio morale. Il vittimismo i toni culturali emerge quando gruppi sociali diversi fra loro vivono in relativa parità di diritti con un’autorità, sì forte, ma comunque facilmente accessibile. Il risultato è lo svilupparsi di una notevole ipersensibiltà agli sgarbi e la tendenza a caratterizzarli come attacchi diretti ad interi gruppi. La possibilità di rivolgersi all’opinione pubblica a mo’ di tribunale finisce solo con l’esasperare le cose.

Porre l’enfasi sulla libertà di parola per zittire coloro con cui non si è d’accordo è una retorica disonesta: le stesse persone che dicono di battersi contro la censura quando sono le minoranze a protestare sono le prime a chiedere sanzioni contro opinioni che non condividono.

Viene da pensare che sia il concetto stesso di libertà di espressione ad essere sotto attacco, un principio sacrosanto tirato per la giacchetta da una o dall’altra parte. Il problema è: come si denuncia un eccesso di politicamente corretto senza finire a far parte di una battaglia reazionaria che tenta di (re)imporre un ordine in via di dissoluzione?

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PNR