di Raffaello Morelli

Il periodo delle feste sembra l’occasione giusta per approfondire il significato liberale del dono. Ad occhio, il dono è ritenuto un modo di festeggiare o di ringraziare ma in realtà è qualcosa di immanente al convivere con gli altri individui. Con il dono, ciascuno  mostra quel che vuol dire, che conosce, che ritiene serva a svolgere un’attività, che propone venga fatto da qualcuno, che utilizza per emozionare, che lo emoziona. E’ la maniera di esprimersi verso l’esterno che ciascuno ha. La radice del dono sta nel mettere a disposizione di terzi il proprio modo di essere, di cui la cosa donata funge da  simbolo. Sempre ad occhio, si intende che il dono sia gratuito. Ma non è affatto detto lo sia. Di certo, non è affatto detto lo sia nel mondo moderno.

Il concetto di dono quale gratuità prevaleva una volta e per secoli, quando ancora si viveva nel clima della divinità che distribuisce ogni cosa. Allora il dono era un omaggio di rispetto e di gioia e la gratuità ne era il presupposto. Man mano è poi maturata la consapevolezza umana secondo cui il convivere migliora quando ciascuno coltiva la propria esistenza: e dunque non resta in attesa del divino che distribuisce e concede. Scoperto il metodo individuale quale strumento per affrontare i fatti materiali della vita, insieme si è capito che il pullulare derivantene delle interrelazioni operative si fonda sul riconoscere che ogni apporto di ciascun individuo ha un qualche valore per tutti i conviventi: e così nel quotidiano si è giunti al sistema di misurare quel valore e di compensarlo.  Di conseguenza, il criterio della gratuità è divenuto il ricordo di un passato ormai privo di concretezza.

Nel mondo moderno, ogni apporto di ciascun cittadino, mettendo a disposizione di terzi quanto deriva dal proprio modo di essere, esige un compenso perché tutti i cittadini possano usarlo nello scambio futuro. Non è essenziale che il compenso sia di qualche tipologia monetaria oppure consista nel mero piacere di chi dona e quindi gratuito. In ogni caso il dono rimane l’esprimersi verso l‘esterno  del cittadino. Quell’esprimersi che di fatti manifesta la diversità di ognuno, nei vari aspetti del suo essere, di natura culturale e fisica. Ogni individuo dona ciò che da lui origina (consapevolmente o no) ed è in grado di donare (per attitudine naturale, per apprendimento, per elaborazione critica, per disponibilità economica). Il donare la propria abilità specifica è l’impronta di ciascun individuo nel rapporto di vita.

Riflettendo, ci si accorge pure di un altro aspetto rilevante del dono nell’ottica liberale. Il dono appartiene ad una concezione dell’individuo assai differente dalla logica  del desiderio, della speranza, del sogno. Meglio, per più versi contrapposta. Desiderio, speranza e sogno esprimono l’elaborare in sé stesso seguendo l’ottica delle proprie idee, anche quando magari si tratta di desideri, speranze e sogni in apparenza riferiti al vivere sociale. Non hanno la concretezza del sottoporsi da subito alla valutazione attiva degli altri in un contesto reale. Viceversa, fare un dono è l’effettivo riconoscere un cittadino diverso, l’affidarsi al suo giudizio, il contribuire a ciò che c’è nel mondo. In altre parole, desiderare, sperare e sognare  possono mostrarsi parenti stretti dell’egoismo e indulgere alla fuga dal reale, mentre il donare esprime l’individuo consapevole di vivere con altri cittadini,  suoi simili quanto a struttura organica, diversi nella personalità e nell’esperienza, uguali nei diritti, con i quali è indispensabile avere relazioni per costruire insieme qualcosa, dalla conoscenza, ai prodotti, alle strutture del convivere, agli affetti.  Il dono mantiene i piedi per terra.

Donare quel che si è in grado di donare, non è una pratica del buon cuore limitata ai periodi festivi. Appartiene alla vita quotidiana del cittadino e si manifesta con atti volontari o non. La questione forse più di rilievo  del comprendere il significato liberale del dono, è che, assorbendo tale significato, si schiudono le porte alla pratica civile della concorrenza. Le impostazioni solidaristiche di origine religiosa o ideologica non arrivano a capire (e capendolo lo rifiutano) che la concorrenza non è una sfida di potere a somma zero, ove uno vince ciò che l’altro perde.  La concorrenza serve per mettere alla prova nella realtà (non nei giochi finanziari),  e non solo nell’immediato, quale idea, quale meccanismo, quale prodotto, quale suono, quale opera, riescano a spiegare particolari cose, rispondano a certe attese e agevolino la vita. La concorrenza serve per conoscere di più e scoprire nuove strade. Donare la conoscenza e la capacità di ognuno – cioè sottoporle alla valutazione di tutti  – fa crescere la possibilità di trovare modalità innovative per utilizzare le risorse e per soddisfare più ampiamente le necessità e i bisogni dei cittadini.  Questione decisiva, perché migliorare l’economia della convivenza significa principalmente cuocere più torta, non  solo distribuire meglio quella che già c’è.

Il dono, compensato o gratuito, è sempre la forma di equità sociale che mantiene funzionanti le condizioni della concorrenza in modo che di torta ce ne sia abbastanza e che  nella sua distribuzione non si formino trombi in ostacolo al meccanismo di cottura di nuove torte. Un’equità sociale dinamica è l’opposto dell’invidia di classe, dell’odio sociale, dell’utopia fantastica, i quali drogano con la speranza del sogno e raccolgono condizioni di vita peggiori che precipitano al degrado. Nutrirsi del rancore verso gli altri è un comportamento fondamentalista contro il metodo individuale del dono.

Photo Credit: Melinda Beck for New York Times

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