di Raffaello Morelli
Esiste un parametro significativo su cui riflettere. Alla domanda “il mondo sta migliorando, peggiorando o restando fermo?”, le statistiche forniscono in ogni paese la stessa risposta inequivoca. Percentuali altissime (oltre l’85%) di cittadini affermano che le condizioni di vita peggiorano al passare del tempo. Eppure la realtà mostra l’opposto. Lo spiega in chiave sperimentale il sito dell’Università di Oxford, Our World in Data, esaminando un arco di tempo abbastanza lungo, minimo un secolo.
In uno scritto lì pubblicato da Max Roser il 20 dicembre 2016, con cinque grandi grafici, si spiega che le condizioni di vita sono nettamente migliorate in tema di povertà, di alfabetizzazione, di salute, di libertà, di fertilità, di formazione scolastica (si può consultare il sito https://ourworldindata.org/, c’è anche un grafico scaricabile di come un gruppo di 100 persone avrebbe vissuto i cambiamenti negli ultimi 200 anni). Ragionare in base ai dati fa scoprire un approccio completamente diverso. Qui, faccio un rapido cenno a come viene trattata la questione Fertilità, il numero medio di bambini per ogni donna.
Duecento anni fa, la popolazione mondiale era circa un miliardo, oggi è aumentata 7 volte, con il conseguente aumento della richiesta di risorse umane e di impatto dell’umanità sull’ambiente. Prima ogni donna partoriva 5/6 figli ma tantissimi morivano prima di aver raggiunto l’età riproduttiva. Poi l’umanità ha iniziato a vincere la lotta contro la morte precoce. L’aspettativa di vita è raddoppiata negli ultimi cento anni. Un paese dopo l’altro, le donne si sono rese conto che i figli muoiono assai meno e hanno scelto di avere meno figli. La transizione demografica, da alta mortalità e fertilità a bassa mortalità e fertilità, ha avuto durate diverse nei diversi paesi, però la fertilità globale è più che dimezzata negli ultimi 50 anni, arrivando oggi a un po’ meno di 2,5 figli. Ciò significa la fine della crescita della popolazione , cosicché la popolazione globale, quadruplicata nel corso del XX secolo, non raddoppierà più in questo secolo e i demografi prevedono che si fermerà intorno al 2075. Intanto, l’aspettativa di vita, intorno a 35 anni all’inizio ‘800, è cominciata a salire, prima nei soli paesi industrializzati per poi riequilibrarsi, raddoppiando nel secolo scorso fino a collocarsi oggi intorno ai 70 anni. La fine della crescita della popolazione tranquillizza, anche se porrà nuovi problemi, ma il rimedio non è di certo il mito procreativo in termini ideologico religiosi.
Dimostrato nei vari settori esaminati che le condizioni di vita vanno migliorando, Max Roser ragiona sul perché le prove empiriche contrastino tanto con la percezione. E si sofferma sulle colpe dei mezzi di comunicazione, che si concentrano sulle cose che vanno male (singoli eventi e singoli problemi) trascurando una visione d’insieme e le tendenze. Ma anche sulle colpe del sistema educativo, che è impegnato a trasmettere questo o quel modello del passato e che non riesce a trasmettere informazioni sugli sviluppi a lungo termine. In conseguenza la stragrande maggioranza delle persone ignora, ad esempio, il declino della povertà estrema, anzi ritiene che la quota di persone indigenti stia aumentando (2/3 dei cittadini USA ritengono raddoppiata la quota di estrema povertà). Ed inoltre è completamente ignorante sullo sviluppo globale. Il gruppo di Max Roser lavora da 25 anni ad una statistica sugli oltre 20 miliardi di persone vissute negli ultimi 200 anni, da cui appaiono evidenti le trasformazioni in avanti della nostra vita, lente ma costanti. Disporre di tali dati sugli sviluppi a lungo termine integra le informazioni che si concentrano sui singoli eventi immediati e migliora il rapportarsi di ciascuno alle relazioni con gli altri e con il mondo.
Oltre che a riflettere sulle responsabilità dei mezzi di informazione e della scuola, gli studi a Oxford inducono anche a ripensare l’approccio al conoscere. Iniziando dalla sua finalità e dal come concepire l’individuo e il suo ruolo. In base all’esperienza, la vita è complessivamente mutevole e immersa nel tempo, per cui il fine del conoscere non può essere la ricerca di un modello del mondo definito e fuori del tempo fisico. Conoscere significa capire via via i meccanismi delle cose, viventi o no, comprese le loro relazioni quotidiane, riuscendo così ad agevolare le condizioni di vita degli umani. Quindi capire dipende essenzialmente da un preciso metodo di approccio: formare in ciascun individuo lo spirito critico necessario per accrescere la capacità di osservare i fatti del mondo per coglierne le indicazioni. In poche parole, il metodo sperimentale.
Farsi ossessionare dalla falsa notizia che il mondo peggiora, è una riprova che in giro si usa poco o nulla il metodo sperimentale. Pesa l’antica abitudine di privilegiare il potere in ogni sua forma piuttosto che i mezzi per promuovere la libertà individuale. Le indicazioni del potente hanno più rilievo di quelle dei singoli, il conformismo del potere deve prevalere e il collettivo lo incarna. In aggiunta, questa concezione pensa agli interessi individuali in termini di egoismo e non di rapporti con gli altri individui. Nel complesso, tale disattenzione all’individuo è una benda sugli occhi che non fa cogliere aspetti decisivi del come nella realtà avvengono le trasformazioni. Che non sono attivate da un presunto cervello collettivo – tirato in ballo senza che nessuno sia mai riuscito a vederlo – ma esclusivamente dalle ipotesi, dalle intuizioni, dagli sforzi di singoli operatori che, in base allo sviluppo delle proprie capacità acquisite e al riscontro ottenuto con le applicazioni delle novità fatte nel tempo, aprono nuove strade alla conoscenza del mondo e agli strumenti adoperabili dagli umani per meglio affrontare i problemi del vivere. Per dare all’individuo il ruolo centrale che gli spetta, è pure indispensabile considerare ogni singolo non come isola priva di contatti, bensì come organismo che utilizza di continuo l’esperienza e i prodotti altrui, in specie dei predecessori. Insomma, affidarsi all’individuo vuol dire evitare di concepirlo come soggetto fuori del mondo impegnato a sbarazzarsi degli altri suoi simili non riconoscendo loro gli stessi diritti individuali di cui dispone lui. I dati storici mostrano che l’individuo si manifesta nel relazionarsi con gli altri individui, in una collaborazione che può essere esplicita o implicita ma che non prescinde mai dall’individualità di chi collabora né la dimentica.
Da questa carrellata sui temi di Our World in Data, emerge l’importanza di non rassegnarsi al mito della vita in presunto peggioramento. A parte il fatto che non è vero, rassegnarsi corrisponde a scegliere una via scoscesa (ricorrere ad un capo, persona o entità, che protegge e fornisce i mezzi di sussistenza) rinunciando a quella maestra (valorizzare l’individuo che di continuo attiva il cambiamento e mantiene la connessione con i fatti del mondo). Naturalmente valorizzare l’individuo comporta riconoscere che l’agitarsi e il confliggere sono lo scenario quotidiano. C’è sempre molto da fare, non per la lontananza dal modello perfetto sognato ma perché sono innumerevoli le nuove iniziative dei singoli pensate per la propria vita.
Dunque, il terreno specifico dell’agire politico al fine di convivere tra diversi è la cura delle regole (scelte con l’apporto di tutti e aggiornabili) per confliggere tra le varie proposte ed esigenze adoperando il metro dei risultati. Quelle che, nella concezione antiindividualista, vengono etichettate come condizioni di vita socialmente e moralmente inaccettabili, nella concezione sperimentata della centralità dell’individuo lo sono solo quando si tratta di condizioni, giuridiche, economiche, ambientali, in cui non si realizza abbastanza la libertà di esprimersi di ognuno. In ogni momento, l’impegno politico non è gestire il potere ma irrobustire la libertà nel quadro dei vincoli esistenti. Ben sappiamo che, se in un luogo le condizioni sono troppo carenti – tipo povertà di redditi e di opportunità – il cittadino reagisce mettendosi alla ricerca di condizioni più adatte, all’interno di ambiti territoriali sempre più ampi (18 milioni di persone vivono in un altro paese europeo). E ciò è un riequilibrio fisiologico. Ma quando le condizioni sono assai gravi, subentrano le migrazioni di massa intercontinentali, che per loro natura sono un nodo da sciogliere ma non sono affrontabili con il tradizionale solidarismo mondialista ideologico religioso, che illude di poter prescindere dal vincolo dell’effettiva capacità del territorio di accoglierle.
Non farsi ossessionare dalla falsa notizia che il mondo peggiora, costituisce il modo sperimentato per conoscere il nostro passato, per dare valore allo sviluppo raggiunto, per proseguire negli sforzi di ognuno di noi nel conoscere di più e quindi nel praticare l’innovazione e il cambiamento , fattori imprescindibili per trovare soluzioni sempre nuove. La politica non è sognare la perfezione senza diversità e senza tensioni in un mondo fuori del tempo, è costruire da ora in poi la libertà materiale del cittadino più radicata e più estesa.