di Silvia Ferrara
Il mito di Pandora è molto ambiguo. La storia è conosciuta. Esiodo (Opere e Giorni e Teogonia, VIII secolo a.C.) narra che, su ordine di Zeus, Pandora venga creata direttamente dalla terra per essere la prima donna, una specie di Eva, ma senza giardino dell’Eden e senza costola di Adamo. Il nome di Pandora è evocativo, anche se vago, perché letteralmente significa ‘tutti i doni’, ma il greco vuole darne un senso non passivo = è ‘colei che dà tutto’- e già qui inizia il trabocchetto.
Esiodo non la nomina nemmeno, il nome di Pandora viene consegnato alla storia solo dopo, eppure questa fanciulla, nella versione della Teogonia, non è fatta per dar doni. Ironia dei nomi, Pandora nasce come creatura dedicata ad altro scopo: punire gli uomini per aver rubato il fuoco sacro degli dei. Per questo è armata di tutte le doti di geisha ante litteram: arte della retorica datale da Ermete, della seduzione da Afrodite, del taglio e cucito da Atena, ecc. Leggere la descrizione della sua nascita magica è divertentissimo, perché sembra scritta da Garcia Marquez o Isabel Allende e non agli albori della letteratura classica, quasi 3000 anni fa.
Pandora ha anche una cassaforte (è una grande giara in realtà, ma cassaforte rende l’idea meglio) piena di tutti i mali del mondo. E la apre. Non per malizia, ma per incoscienza e curiosità, proprio come Eva addenta la mela. E così tutti i mari e la terra sono riempiti dal male. Solo la speranza rimane chiusa nel bordo della cassaforte. Ora arriva il bello. Perché la speranza rimane sigillata dentro? Esiodo non lo spiega.
Rimane dentro per l’uomo, come deposito munifico per il futuro, o rimane lontana dall’uomo, come una chimera inaccessibile? E che cos’è in sostanza questa ‘speranza’? Che cosa ci faceva nella marea di mali chiusi nella cassaforte di Pandora? Forse questa speranza è null’altro se non l’attesa del male inevitabile, e quindi un male anch’essa? Ma se così fosse, allora la storia ha un risvolto positivo: in mezzo a tutto questa sfiga, siamo fortunati a non dover vivere continuamente nell’attesa del male. Nietzsche sarebbe d’accordo: sperare altro non fa che prolungare una lenta agonia.
Inutile interpretare il criptico Esiodo, il mito è espressamente ambiguo. Non si pronuncia- è un finale volutamente sospeso. E, se ci pensate, è giusto che sia così. Siamo fatti per non sapere. E’ il bello dell’essere (troppo) umani.
Silvia Ferrara è Professore Associato di Civiltà Egee alla Sapienza, Università di Roma. Ha studiato all’University College, Londra e all’Università di Oxford, e dopo vari anni come ricercatrice in archeologia e linguistica a Oxford, ha deciso di tornare in Italia con il rientro dei cervelli intitolato a Rita Levi Montalcini.