La Stampa, 20 febbraio 2016 –
È un problema che 100 mila italiani siano emigrati all’estero? No. Il mondo ci offre grandi occasioni ed è giusto che noi e i nostri figli le sfruttiamo. Che vadano quindi all’estero a cercare fortuna, a creare, produrre e innovare. E’ la natura umana: esplorare ed essere curiosi. Tra l’altro, i 100 mila li abbiamo sostituiti con 245 mila stranieri, a cui aggiungere 28 mila italiani rientrati. Il saldo è positivo. Eppure il dato fornito dall’Istat sta suscitando grande clamore e avrà giorni di strascichi politici che, come al solito in questi casi, si risolveranno in nessuna reazione concreta. Perché dovremmo preoccuparci? Ci sono due ragioni. La prima è che il numero di chi esce si è alzato mentre il numero di chi entra è andato progressivamente riducendosi. Il Paese è meno attrattivo. Così come non arrivano gli investitori, arrivano meno lavoratori stranieri. La seconda ragione dovrebbe preoccuparci seriamente, ed è strettamente connessa alla prima. Perché quelli che se ne vanno sembrano essere i cosiddetti Cervelli in Fuga, giovani molto qualificati che in Italia non vogliono più stare perché frustrati da un sistema che premia le relazioni familiari, parrocchiali e corporative, invece di esaltare la competitività e l’intraprendenza, cioè il merito. Le istituzioni, così come molte università e imprese del settore privato, non riconoscono le competenze dei nostri giovani, favorendola mediocrità. E così scappano dalla burocrazia e da quella cultura genuflessa sul passato che ha rinnegato qualsiasi visione sul futuro. E’ un atteggiamento che purtroppo sta attecchendo in molte parti d’Europa, spingendo italiani ed europei verso gli Usa e sempre più progressivamente verso l’Asia, dove, invece, si costruisce il domani. Ne consegue, e questo è il terzo problema, che quelli che corrono da noi, eccezioni a parte, sono individui poco qualificati che trovano nel nostro Paese una speranza, ma non un’opportunità.
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