L’accordo tra Entrate e Google ha riportato il tema alla ribalta: è possibile trovare una via italiana alla web-tax?
Lo scenario internazionale si presenta molto articolato, con in realtà un solo vero tentativo tra i principali Paesi: il Regno Unito. Il meccanismo che va sotto il nome di Diverted profits tax (Dpt) è stato introdotto nel 2015 nel Regno Unito e prevede una tassazione del 25% ma in due situazioni ben precise:
2) La stabile organizzazione. La Dpt poi può scattare in presenza di situazioni elusive da parte di una stabile organizzazione di un’impresa non residente nel Regno Unito ma che comunque vende beni o servizi sul territorio.
Questo sistema è stato accompagnato anche dall’attribuzione di poteri di indagine dell’amministrazione finanaziaria britannica sulle attività societarie.
Grande assente sul terreno della web tax è l’Unione Europea, con un approccio duplice da parte della Commissione europea. Da una parte, infatti, è in corso un tentativo di regolamentare la materia introducendo una normativa fiscale che eviti fenomeni di evasione ed elusione delle regole, senza però ostacolare lo sviluppo dell’economia digitale salvaguardandone gli effetti positivi derivanti dalla crescita. Dall’arta parte, invece, i fenomeni i elisione posti in essere dalle multinazionali che hanno sfruttato la diversità delle legislazioni nazionali sono stati perseguiti facendo ricorso alla normativa antitrust.
I Italia il tema web tax potrebbe tornare di attualità. Potrebbero essere presentati degli emendamenti che delineino una sorta di opzione volontaria da parte delle società digitali che consentano loro di essere considerate una “stabile organizzazione” in Italia con la conseguenza di versare l’Iva sul fatturato sviluppato sul nostro territorio.
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