Da occhio attento alla lunghezza delle gonne a strumento cardine a presidio della legalità
di Lucrezia Vaccarella
Con il termine “ Polisemia” la linguistica indica la coesistenza, in un medesimo vocabolo, di differenti significati ovvero di una diverso contenuto simbolico in funzione del contesto, reale o ideologico in cui viene utilizzato.
Certamente non è tra quelle più note e la pluralità semantica non ne risulta di palmare evidenza, ma, alla parola “ censura” tale definizione calza a pennello.
Il termine è di derivazione latina: ai magistrati Romani, titolari della carica censorea, era stato affidato, per l’appunto, il compito di fare una sorta d’inventario dei cittadini, onde stabilirne il censo, vale a dire l’entità delle tasse da versare al fisco repubblicano e, in seguito, a quello imperiale.
Nulla è cambiato nella funzione persistente ed attuale del “ censimento” , attività di senso apparentemente neutro e priva di connotati etici, avuto riguardo all’identica finalità che vi sottende sin da diverse centinaia d’anni prima della nascita di Cristo.
Ben presto, se non contestualmente, i Romani hanno investito i censori, o forse si è trattato di un’autoinvestitura, di compiti ben più invasivi della vita pubblica e privata dei cittadini. Chi non ha mai sentito parlare di Marco Porcio Catone, da secoli “ il censore” per antonomasia.
E’ giunto a noi con la fama di fervido assertore dei severi mores italici che riteneva compromessi dall’eccesivo lusso, dall’ostentata ricchezza dall’abuso di giovani schiavi e in genere dalla lassità dei costumi che insidiava l’antica virtus su cui Roma fondava grandezza e prosperità
E con Catone si è sviluppata l’accezione negativa del termine che tuttora fa della censura uno, anzi lo, strumento di controllo e di repressione della libera manifestazione del pensiero e della stessa creatività, quale che ne sia la modalità di espressione.
Però, in epoca repubblicana, i censori non si limitavano a “ bacchettare” i poco morigerati cittadini. Su investitura plebiscitaria, spettava loro il compito di designare i candidati al Senato, onde preservare il pluralismo dialettico della politica repubblicana ed evitare l’accentramento di potere nelle mani di già potentissimi clan aristocratici ai danni delle classi meno abbienti e/o meno altolocate che, in ogni caso, costituivano l’ossatura dell’antica Roma.
Si comincia ad intravvedere un significato che va ben oltre la valutazione di biasimo e reprensibilità, seguita da vessanti inibizioni, connotati storicamente preponderanti nell’accezione più diffusa e negativa della parola in esame.
Ben altra funzione, pur muovendo da una matrice comune, ha assunto la censura nell’ambito delle sanzioni disciplinari irrogate ai lavoratori dipendenti cui, in base alla gravità ed all’eventuale reiterazione, vengono contestate condotte in contrasto con l’obbligo di fedeltà e di cooperazione con il datore di lavoro
Il potere disciplinare, il cui esercizio è legittimo al ricorrere di specifiche condizioni e con l’osservanza di principi e regole procedimentali, è una prerogativa datoriale, espressione della libera iniziativa economica al cui successo devono concorrere i dipendenti, con il lavoro e, al contempo, adottando comportamenti consoni alla fiducia loro ripostavi dal titolare dell’azienda
Quale sanzione disciplinare, tra le più blande di cui sono passibili i lavoratori, la censura perde ogni connotazione repressiva della libera manifestazione del pensiero, per assurgere essa stessa a strumento di tutela di altra libertà altrettanto munita di vessillo costituzionale.
Appartengono all’alveo più genericamente repressivo le cosiddette “ pene medicinali” denominate, univocamente “censure” dal diritto ecclesiastico. In questo caso ne emerge nuovamente la funzione coercitiva esercitata nei confronti del popolo cattolico, che vi soggiace per averne accettato i sacramenti, a partire dal battesimo.
A renderne palese la natura intimidatoria e fortemente limitante delle prerogative di libertà e dei diritti riconosciuti dallo Stato laico, è sufficiente rilevare come la scomunica ipso facto colga “ Chi ricorre all’aborto ottenendo l’effetto voluto e chi procura tale aborto e chi ne è complice (es. chi incoraggia e chi accompagna all’ospedale) (can. 1398). Attualmente questa scomunica è stata riservata al vescovo, il quale può decidere se e quali sacerdoti hanno l’autorizzazione per rimettere tale scomunica.
In posizione del tutto antitetica si colloca invece il significato che l’ordinamento giuridico italiano assegna al termine censura nell’ambito, più ampio, di tutela del diritto di difesa, di cui è espressione la facoltà di sindacare, in sede d’impugnazione, le pronunce giurisdizionali, “censurandone” i vizi specifici attraverso l’articolazione di altrettanto dettagliate doglianze
L’ atto di appello, per superare il vaglio di ammissibilità, deve contenere delle censure “mirate, specifiche, puntuali” avverso le argomentazioni utilizzate dal primo giudice nella decisione impugnata. L’appellante non può più, come in passato, limitarsi a dedurre proprie – autonome – argomentazioni difensive che siano sganciate da quelle utilizzate dal giudice e poste a base della pronuncia di primo grado, ma deve, innanzitutto, prendersi cura di “attaccare” la sentenza del giudice di prime cure, demolendo le sue argomentazioni, al fine di superare il vaglio di ammissibilità; una volta superata la verifica di ammissibilità, e solo allora, il giudice di appello potrà prendere in esame le eventuali ed ulteriori, autonome, argomentazioni difensive finalizzate all’accoglimento della tesi dell’appellante.
Nel quadro appena delineato si coglie l’accezione garantistica del termine, funzionale a demolire i singoli capi della decisione giurisdizionale onde riaffermare i principi di diritto da quest’ultima ingiustamente vulnerati.
Questo è il significato meno noto della parola ma, all’opposto dell’accezione comune, quello che assegna alla parola “ censura” un ruolo prioritario a presidio del principio di legalità.
Questo il significato che preferisco: un bel salto davvero rispetto a quello di occhio vigile sulla lunghezza minima delle gonne perché non ne risultasse offeso il “comune” ( ? ) senso del pudore.