L’OMS e le regole che soffocano il libero mercato

Monitorare e promuovere azioni regolatorie e fiscali per ridurre il consumo di tabacco: questo l’obiettivo della Conferenza delle parti (COP7) che si terrà dal 7 al 12 novembre a Nuova Delhi, organizzata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). All’ordine del giorno anche la regolamentazione in materia di sigaretta elettronica, e la possibile classificazione delle e-cigs come sigarette di tabacco.

Nonostante oncologi di fama mondiale abbiano esortato l’organizzazione delle Nazioni Unite a non prendere posizioni contro la sigaretta elettronica sulla base di possibili rischi non scientificamente documentati, l’indirizzo dell’OMS sembra, infatti, quello di voler procedere in modo univocamente vessatorio, riproponendo in questo settore la stessa battaglia ideologica già affrontata nell’agroalimentare, con la demonizzazione delle carni rosse, degli zuccheri, di tutte le bevande alcoliche. Allarmismi privi di un’epidemiologia incontrovertibile che si traducono, però, in tasse e imposizioni stataliste che avendo un impatto enorme sulla vita e le abitudini dei cittadini comportano effetti depressivi devastanti sui consumi e sulle filiere di produzione, mettendo a rischio migliaia di posti di lavoro.

Secondo uno studio di Students for Liberty e Competere, se l’OMS continuasse a fare inutile allarmismo e il governo italiano proseguisse la deriva salutista già adottata da altri stati europei, il rischio nel settore del tabacco, sommato a quello dei prodotti alimentari e degli alcolici, consisterebbe in una perdita approssimativa di quasi 100.000 posti di lavoro nei prossimi 5-10 anni e in una riduzione del fatturato di circa 15 miliardi, penalizzando imprese che ora valgono quasi il 10% del PIL italiano, con conseguente calo dello stesso PIL di circa lo 0,7%.

In epoca di rete e di sociali, un tema delicato come quello del legame tra alimenti, bevande, fumo e cancro attrae enorme attenzione e genera grande rumore. In questo contesto la comunicazione, specie quella istituzionale e giornalistica è sempre meno efficace. Giornalisti e comunicatori rimediano come possono ricorrendo a una narrazione urlata, spesso esasperando il messaggio che così estremizzato colpisce ed influenza un pubblico già ipersensibile, modificandone abitudini e necessità.

Ne abbiamo parlato giovedì 27 ottobre a Milano in una proficua tavola rotonda Regolamentazioni internazionali e tasse contro l’industria italiana: chi sarà il prossimo? Un grazie sentito va ai relatori e a tutti i partecipanti.

Omnibus La7 – L’Europa dopo la Brexit

Quale sarà il futuro dell’Europa dopo la Brexit? Questa mattina sono stato ospite di Omnibus La7, per ragionare e mappare le incertezze politiche ed economiche europee a seguito del voto al referendum britannico. Partendo da presupposto che il mondo sta cambiando da un punto di vista tecnologico, lavorativo ed economico, l’Unione Europea non è stata in grado di rispondere in maniera adeguata, ad oggi questa lacuna impone una trasformazione nel modello di sviluppo europeo.

L’Europa dovrebbe portare avanti una riflessione sulla propria struttura, ma la verità è che l’Europa non esiste in quanto Stati Uniti d’Europa, ma in quanto un’Unione di Stati i cui rapporti sono regolati da una serie di trattati. Tuttavia, i Paesi continuano a rivendicare una loro egemonia ed identità, soffrendo la delega di una parte della loro sovranità a Bruxelles. Non dimentichiamoci che poco più di un anno fa sull’Europa aleggiava lo spettro di un’altra EXIT, quella greca. La Grexit non l’ha risolta ancora nessuno e la Grecia, a parte qualche timida riforma strutturale, rimane uno stato completamente privo di un’economia industriale su cui dovrebbe dipanarsi la ripresa.

A questo si deve aggiungere la difficoltà che Milano riscontra nel trasformarsi in un vero e proprio hub finanziario europeo. I CEO e gli azionisti delle grandi multinazionali, nel caso in cui vagliassero l’opzione di abbandonare Londra, a seguito della Brexit, per portare i loro HQ in altre città europee, difficilmente opterebbero per Milano, preferendole Dublino o Francoforte. Non è una questione meramente legata al fisco, che in Italia è comunque più alto rispetto ad altri paesi europei, ma è la difficoltà che si riscontra a fare impresa nel nostro Paese a disincentivare gli investimenti. Una burocrazia esageratamente complicata, come quella italiana, ed un sistema legale non sempre limpido, distraggono dalle importanti prospettive che potrebbe giocarsi la città di Milano, in quanto unica città italiana dallo spirito europeo ed internazionale, a seguito del voto britannico in favore della Brexit.